Lo sfregamento frenetico delle mie mani sotto l’acqua è un terribile loop che si ripete all’infinito.
Prendo un altro po’ di sapone e ricomincio. Ancora, ancora e ancora.
Non riesco a fermarmi. Non posso farlo. Voglio rimanere intrappolata in questo angolo, senza fare né un passo avanti né uno indietro.
Ma soprattutto NON voglio pensare a quello che dovrò fare DOPO.
Shrrrrrrrrrrr.
Lo scrosciare dell’acqua porta la mia triste follia ad un doloroso ricordo.
La cucina è illuminata da quell’orrenda luce al neon che ti ho mille volte supplicato di sostituire. E altrettante mille volte tu mi hai risposto : “ Non sono io a decidere, in questa casa”.
Tu sei girata di spalle, e io ti fisso.
I capelli rossicci ti cadono sulla schiena. Lingue infuocate che lentamente bruciano la mia anima.
Shrrrrrr.
“ E adesso, che hai intenzione di fare?” ti chiedo, dopo un lungo silenzio.
“ Adesso?” rispondi tu, senza guardarmi, tutta concentrata a lavare l’insalata.
“Adesso condisco l’insalata.”
Chiudi il rubinetto e ti asciughi le mani con uno strofinaccio. Ancora non mi guardi.
Dalle mie labbra esce uno sbuffo molto simile ad una risata.
“ Io parlavo di noi due, Laura”.
“Ah, di noi due.”
Finalmente ti giri. Incroci le braccia e mi guardi negli occhi. In quello stesso istante io mi sento come se stessi guardando Milano dall’alto del Duomo.
Proprio non riesco a trovare un modo più efficace per descrivere la sensazione che mi brucia dentro quando i miei occhi incontrano i tuoi.
“ Io voglio stare con te.” Dici, infine, ma distogliendo in fretta lo sguardo. Le dichiarazioni d’amore non fanno proprio per te.
Io sorrido. Mi avvicinò a te, ti prendo il volto tra le mani. Appoggio la mia fronte sulla tua.
“ E lui?” ti chiedo. Ecco, la ferita. Ecco, la fine dell’idillio.
Tu deglutisci. Il tuo senso di colpa è così forte che attraversa le mie viscere.
“Lui … Lui. Lui è mio marito.”
Ti stacchi da me.
In quel momento, sai, avrei tanto voluto dirti cosa ho pensato la prima volta che ti ho visto. Buffo, non te l’ho mai detto.
Forse è vero che non basta una vita a dirsi tutto quello che si vorrebbe dire.
Pazienza, te lo dirò adesso.
Ricordo che quella mattina ero molto nervosa. Era la mia prima lezione universitaria e mi ero seduta nella prima fila. Ero partita con il proposito di diventare una studentessa eccellente, tutto quello che non ero riuscita ad essere al liceo.
Un proposito che ho dimenticato nel tempo. Una cosa che tutto sommato riesce a farmi sorridere.
E all’improvviso eccola.
La creatura più interessante che io abbia mai visto in vita mia.
Una donna alta, con i capelli lunghi e rossicci, gli occhi nocciola. La pelle chiarissima, il naso lungo e le labbra a cuore.
Una donna giovane, non bellissima, ma molto affascinante.
Almeno per me.
Ti sei seduta alla cattedra e hai controllato che il microfono fosse collegato.
Poi hai alzato gli occhi su di noi, con un sorriso imbarazzato e dolcissimo.
“Buongiorno ragazzi.” Hai detto, continuando a sorridere.
“Sono la vostra insegnante di Storia del Teatro”.
Il ragazzo seduto dietro di me, un tipo magrolino e con i dread, non si è risparmiato l’affermazione più stupida e virile del momento:
“Mmh che ti farei. Hai la faccia da porca” ha sussurrato, l’idiota. Con le sue pseudo treccine che sicuramente giudicava affascinanti, ribelli.
Povero illuso. Sarebbe troppo facile così, abbellire il fuori per migliore il dentro.
Non so cosa mi abbia fermato, quella volta, dal dargli un forte pugno sul naso.
Perché io in quel momento, Laura, ero già innamorata cotta di te.
E quel tipo era veramente un idiota.
Perché non hai mai avuto la faccia da Porca. E questo non è un stupido commento ad una stupida affermazione.
E’ semplicemente quello che ho pensato.
“Questa donna” avevo pensato “ è una creatura in gabbia”
E infatti avevo ragione.
Alla fine decido di chiudere il rubinetto.
Alzo gli occhi sullo specchio.
Una ragazza di 23 anni con due occhiaie profonde sotto gli occhi nerissimi e i capelli corti, neri e spettinati mi restituisce uno sguardo vacuo e indifferente.
Dio, come sono caduta in basso.
Mi passo una mano ancora bagnata sulla faccia.
Poi poggio le mani sul lavabo e rimango in quella posizione, con la testa china a fissare il bianco della ceramica per venti minuti, o un’ora, o forse un anno.
Alla fine mi ricompongo.
Apro la porta del bagno con un calcio e mi fiondo in corridoio.
Esco fuori in giardino e mi siedo sui gradini di pietra. Tiro fuori dalla mia giacca il mio pacchetto di sigarette .
Ne accendo una e me la infilo tra le labbra.
Faccio due tiri, ma poi la butto via.
Sono troppo nervosa per fare qualsiasi cosa.
Mi alzo in piedi, le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti.
Mi guardo intorno, comincio a camminare. Arrivo fino al market, che è chiuso e buio.
Lo fisso per un po’, con le mani in tasca.
Poi ripercorro la strada, diretta a casa.
Sono uno stupido cane che tenta di mordersi la coda.
Passo dopo passo, non faccio altro che pensare a mia madre.
Perché lei aveva ragione. E lo so che non ti farebbe piacere,Laura, sentirmi dire questo, ma tant’è.
Mia madre mi diceva sempre che nella mia vita avrei combinato solo guai.
Tutte le volte che litigavamo, si presentava sempre la solita litania.
Fondamentalmente, quello che la cara signora Nubbi mi ripeteva erano tre semplici frasi:
1) “Sei una squallida puttana del Diavolo”
2) “Nella tua vita combinerai solo guai,e quando farai il passo falso che ti farà filare in galera, io sarò lì a gustarmi la scena”
3) “Avrei dovuto abortire”
E certe volte ero d’accordo con lei. Quando la cinghia di mio padre mi colpiva sulle braccia e sulle gambe, tra le lacrime del dolore pensavo che quella volta me l’ero meritato. Quella volta avevo esagerato sul serio.
Come quando avevo sputato su una foto della mia famiglia dopo un litigio insulso.
O come quando avevano trovato dei filmati lesbo nel mio pc.
O come quando avevo venduto tutto l’oro che gli inutili parenti mi avevano regalato in occasione dei miei ancora più inutili Sacramenti.
Che cosa volevo farci con i soldi che avevo guadagnato?
Ah già. Il portatile.
Quando ti ho raccontato tutto questo, tutto quello di cui avevo memoria sulla mia famiglia, tu mi hai guardato con un’espressione incredula.
Stesa affianco a me, con il lenzuolo che ti copriva il seno nudo, mi hai detto di non preoccuparmi.
Che non sono una persona orribile.
Mi hai detto che non sono un fallimento e che no, non sono una valanga di merda.
E che sono una persona buona, incapace di fare del male a qualcuno.
Mentre ripenso a questo, sono arrivata a casa.
Ho lasciato la porta aperta. Qualcuno sarebbe potuto entrare in casa.
Magari qualcuno mi sta aspettando dietro il divano, pronto a sgozzarmi.
Sgozzarmi?
Un brivido freddo mi corre lungo la schiena.
Una forte fitta allo stomaco mi fa piegare sulle ginocchia.
Mi gira la testa, mi sembra di stare per morire. Poggio i palmi per terra. Non aspetto altro che la fine.
Adesso sono una bimba di un anno che gattona per casa.
Una bambina senza mamma.
“Avete mai pensato di fare dei figli?”
Mi guardi come se avessi detto di non aver bisogno di respirare.
“Beh?” ti dico.
“Perché me lo chiedi?” dici, gli occhi fissi sul mare.
Il sole delle tre del pomeriggio di maggio fa sembrare i tuoi capelli fiamme vere.
Seduta in spiaggia, con i capelli mossi dalla brezza marina, sembri una Ninfa.
“Lo sai che non lo amo” dici, in un soffio. Rapido come uno starnuto.
“Eppure non vuoi lasciarlo” rispondo io, in attesa del colpo di grazia.
Bang. E’ arrivato.
Ti volti verso di me, gli occhi in fiamme. Ma nella rabbia riesco a leggere anche un velo di tristezza.
Beh, almeno adesso mi stai guardando. Finalmente.
“Ancora con questa storia?” sbotti.
“Ne abbiamo già parlato” continui, senza aspettare una mia risposta.
“E adesso basta vittimismo. Non sei la sola vittima della situazione” aggiungi, tornando a guardare il mare.
Che male.
Che terribile ferita al cuore. Un dolore immenso ogni volta che lasciavi cadere quel discorso.
E infatti io sono ancora qui in ginocchio, distrutta.
Le mie mani sono ancora sul tuo pavimento. E questa casa puzza di lui.
Lui, lo stempiato.
Lui, il palestrato.
Lui, lo stupido borghese che ha sempre bisogno di un’auto nuova.
Lui, il cieco.
Lui, l’altro.
Non riesco nemmeno a dire il suo nome. Mi viene da vomitare al solo pensiero.
La prima volta che mi hai presentato a lui, il tuo caro maritino, hai detto:
“Lei è una mia studente di Teatro”
E rapido come uno starnuto, io avrei voluto aggiungere:
“Che tu ti scopi non appena tuo marito non è in casa”.
Volevo proprio dirgli la verità. Sbattergliela come un pugno su quel brutto muso che mi fissava con aria di sufficienza.
“Non sembra che tu abbia vent’anni” aveva detto lo Stronzo.
“ Sei molto minuta … ti avrei dato 12 anni”
Io ho sorriso educatamente.
“Potresti essere mia figlia” ha continuato, stappando la sua bottiglietta di acqua minerale.
“Allora dovresti vedere che bello incesto tra me e mamma” avrei voluto dirgli.
Che bella sensazione che avrei provato. Magari avrei visto quel Porco sputare l’acqua che stava bevendo così tranquillamente. E poi , rosso in faccia, avrebbe tossito per altri cinque minuti, e alla fine, tornato di un colorito normale, mi avrebbe detto:
“ Come, scusa?”
Convinto di aver capito male.
Quasi quasi mi pento di non avergli detto come stavano le cose.
Ma in fondo, a che sarebbe servito?
A nulla.
Perché tu avresti comunque scelto lui.
Di nuovo.
Avresti di nuovo preferito una vita tranquilla, in una casa tranquilla, in un paesino di provincia estremamente tranquillo.
Ogni domenica andare a Messa, e poi di filato a pranzo dai tuoi genitori.
Conservare con loro un rapporto ordinario. Tranquillo.
Tutto quello che non avresti avuto con me.
Ma adesso puoi stare serena, sul serio.
Perché non dovrai più scegliere.
Mi sollevo dal pavimento, carica di nuova forza.
Non posso pentirmi adesso, né tirarmi indietro.
Mi fermo sulla soglia della tua camera da letto.
Tu sei ancora lì sul letto, bella come sempre. Neanche il sangue sulle lenzuola e lo squarcio nella gola riescono ad offuscare il tuo fascino pulito e sincero.
Mi avvicino al tuo corpo. Prima di andare in bagno a lavarmi le mani ti ho chiuso gli occhi, così adesso sembra che stai dormendo.
Vorrei coprirti con qualcosa di pulito, ma non mi hai mostrato dove tenessi le lenzuola di ricambio.
La tua è stata pura cattiveria, Laura.
Avrei potuto comprendere se tu lo amassi.
Ma mi hai detto che non è così.
Hai detto : “Non voglio perdere quello che ho guadagnato”.
Come se qui si parlasse di sporchi soldi.
E così hai condannato me e te ad un tunnel d’infelicità senza via d’uscita.
Vivere aspettando il momento dello schianto al suolo.
E io proprio non potevo permettertelo.
Ed è per questo che l’ho fatto.
Ti do un ultimo dolce bacio sulle labbra fredde.
Poi i miei occhi incontrano il block notes che tieni sempre sul comodino.
Un messaggio stavolta te lo lascio, visto che mi rimproveri spesso per la mia scarsa voglia di scrivere lettere o email.
Quando poggio la matita, mi sento un po’ meglio.
“Bye Bye Beautiful”, ti ho scritto. E’ il titolo della tua canzone preferita.
Ovviamente i poliziotti non capiranno nulla.
Addio, amore.
Molto probabilmente ci rivedremo all’Inferno.